La Forchetta Dispettosa
Incapacità, diffidenza ed egoismo frenano l'olio made in Italy
Analisi sulla situazione dei paesi produttori e sui trend di mercato in relazione alla concorrenza spagnola e ai nuovi Stati importatori emergenti
Chi la fa da padrona sul mercato internazionale dell’olio di oliva è la Spagna, perenne rivale dell’Italia per tante ragioni su questo fronte. Ma non su quello puramente produttivo, infatti quando si parla di Spagna si ci riferisce ad un volume di produzione d’olio di oliva triplo rispetto all’Italia (nel 2011/12 la produzione spagnola è stata il quadruplo di quella italiana!).
Lo scorso 26 e 27 marzo si è svolto a Madrid un salone internazionale sull’ olio di oliva chiamato World Olive Oil Exhibition, che nasce con lo scopo di creare i contatti fra i produttori e la domanda internazionale di questo prodotto, e quindi favorire gli scambi commerciali. Il direttore esecutivo del Coi (Consiglio Oleicolo Internazionale) Jean Louis Barjol ha inaugurato la manifestazione, e ha presentato i dati relativi ai nuovi mercati dell’olio di oliva, con una conferenza dal titolo “prospettive del mercato di olio di oliva con particolare enfasi ai Paesi emergenti”.
Riporto di seguito qualche considerazione personale scaturita da questa presentazione. Quello che emerge dai dati, è il ruolo ormai “storico” dell’Italia nel settore. Storico in tutti i sensi. L’Italia iniziò ad esportare l’olio di oliva all’estero, soprattutto verso gli Usa a inizio Novecento, grazie alla forte emigrazione italiana. L’Italia ha sempre avuto una forte tendenza all’ importazione di oli dall’estero, Spagna e Tunisia in primo luogo. E l’Italia ha avuto sempre un grande appeal internazionale, per la nostra storia e tradizione anche gastronomica.
Ma i dati del mercato internazionale sembrano suggerire un inesorabile cambiamento: con il miglioramento della qualità del prodotto spagnolo da un lato, e con la sempre crescente consapevolezza degli acquirenti internazionali che l’olio italiano, spesso tanto italiano non è (sento spesso ripetere che l’ Italia ormai è solo un marchio), fra non molto tempo il settore potrebbe
trovarsi in situazioni peggiori di quanto lo sia attualmente.
Migliore organizzazione della parte agronomica, della trasformazione (gestita da esperti e non direttamente dagli agricoltori), e di tutta le fasi dallo stoccaggio alla vendita, rendono la Spagna un concorrente agguerrito sulla scena internazionale. Dove l’olio italiano ha ancora un nome, e gente disposta a pagare per la supposta maggiore qualità. Però la guerra del prezzo è sempre viva, e i minori costi di produzione di altri Paesi, uniti anche al sempre maggiore trend di esportare sfuso e imbottigliare direttamente nel Paese terzo (operazione sottolineata da Barjol), sono fattori da considerare seriamente.
Guardando al nostro cortile, l’Italia sta perdendo grosse fette di mercato, e a lungo andare potrebbe essere disastroso, soprattutto se accoppiato a costi produttivi sempre maggiori e a frammentazioni della produzione agricola che a volte rendono ridicoli i confronti con produttori spagnoli.
Poco ma buono? Può darsi. Ma a che prezzo? Ovvero, quanto costa produrre, imbottigliare, certificare, commercializzare e pubblicizzare il prodotto nella situazione attuale?
Perché non organizzarsi in gruppi di produttori con un’unica struttura produttiva che raggruppi molto piccoli produttori e “frantoietti” e che garantisca qualità ma anche standardizzazione del prodotto?
Perché creare piccole Dop la cui produzione certificata non ha alcun valore sul mercato, né un livello produttivo adeguato a soddisfare una nicchia di mercato (qualora esistesse), magari in zone praticamente ignote al consumatore?
Perché tutti sembrano contro l’associazionismo vero, quello produttivo e quello di mercato, per poter presentare pochi marchi, poche etichette, poche denominazioni, ma forti? Si tratta di incapacità, di diffidenza o di egoismo?
Nicola Caporaso (Food Science and Technology Unit Department of Agriculture, Federico II University of Naples)
in data:11/04/2014